Buddismo e Sport

Tanti anni fa cominciai ad interessarmi alle filosofie orientali, e a familiarizzare con alcuni termini fino allora sconosciuti. Karma, reincarnazione, meditazione trascendentale fecero il loro ingresso nel mio vocabolario, dapprima solo come parole vagamente esotiche e misteriose; poi, col tempo, acquisirono sempre più un significato intelligibile. Soprattutto,  cominciavano a dare piccole risposte  alle tante, immense, domande che la vita mi poneva.

Intanto nuotavo. E gareggiavo. Come ancora adesso faccio. E le domande si moltiplicavano. Iniziai a chiedermi che senso avesse gareggiare; superare un avversario, magari arrivare  primo (le rare volte che capitava).

In effetti, oggi, se limitato alla semplice vittoria, lo sport non ha davvero molto senso. A volte, nel guardare importanti manifestazioni, come le Olimpiadi, vedo lo sguardo dei vincitori appena finita la gara.  C’è una sorta di luce nei loro occhi. I buddisti dicono sia l’illuminazione. Pochi attimi, frazioni di secondi in cui la mente si acquieta. Ma quell’attimo in cui scorgiamo quel residuo di illuminazione è già successivo, perché la mente sta già elaborando ed è tornata tra noi. Più o meno velocemente lo sguardo di gioia cede il posto ad altre emozioni, ad altre sensazioni.

Qualcuno ha affermato che la vita scorre come un fiume (“panta rei os potamos”) e che a nulla serve aggrapparsi, attaccarsi. Più saggio è fluire con lei.

Ricorderete sicuramente il film “Momenti di gloria”. In una delle ultime sequenze, Abrahams il velocista inglese, vince i 100 piani. E nello spogliatoio è un uomo distrutto. E’ la “sindrome della vittoria”, commentano gli altri atleti. Accorgersi che qualcosa che credevamo rappresentasse un obbiettivo per la nostra realizzazione non è neanche un minuscolo passaggio, lascia svuotati, annichiliti.

La vittoria e la sconfitta. Solo due facce della stessa medaglia. Quando non riuscivo a salire sul podio avrei fatto carte false per essere tra i primi tre, guardando con un misto di invidia e ammirazione i premiati. Alla mia prima medaglia vera, mi è sembrato di toccare il cielo con un dito, e non vi dico quando il podio l’ho salito tutto quanto. Poi, un po’ per volta, ho cominciato a vedere le cose da un’altra prospettiva e a domandarmi: “Allora? Tutto qui?” A provare compassione (sinonimo di simpatia) per chi era un gradino più in basso e a capire che non è che avesse poi molto senso essere invece più in alto.  Da ragazzo facevo Pentathlon Moderno: tra le specialità previste c’è la scherma. E, al pari di altri sport che si praticano “uno contro uno” non mi stava granché simpatico. Il mio allenatore mi caricava dicendomi che avrei dovuto vedere ogni mio avversario come l’omicida di mia madre e mio padre! 

Certo se allora qualcuno mi avesse detto che stavo sbagliando, che il mio modo di praticare lo sport, di desiderare vittorie e medaglie , era sbagliato, l’avrei preso per pazzo. Cosa poteva esserci di sbagliato? Cosa può esserci di sbagliato? Questa società è organizzata così: chi vince ha fama, denaro, va in televisione, ha le foto pubblicate sui giornali. Non può dubitare di fare la cosa giusta.

Ma non è tutto. Io sono convinto che se praticassimo lo sport, in particolare, questo nostro sport, il nuoto, solo per un benessere fisico, per tonificare i muscoli, per migliorare il nostro aspetto forse faremmo dell’altro. Oggi esistono in commercio degli ottimi elettrostimolatori che, nella comodità della nostra casetta ci consentono, senza fatica,  di modellare le nostre forme.

La questione è essenzialmente mentale. Nel senso che quello che consciamente, o, molto più spesso, inconsciamente, cerchiamo è la quiete mentale. Un rifugio da tutto quello che nella vita quotidiana ci bombarda, ci crea ansia e ci disturba. E’ cercare un silenzio interiore. E il nuoto ci regala anche un silenzio esteriore, ovattando i rumori del mondo. E’ una sorta di meditazione. In realtà questo vocabolo traduce malamente il termine sanscrito “dhyana”. Il comune significato italiano di meditare è quello di riflettere su di un qualche oggetto, pensare, quindi. “Dyhana” invece indica una perdita della consapevolezza del mondo fuori di noi, uno svuotamento della mente per tornare al nostro vero “Sé”. Ovvero l’opposto di “esistere” (dal latino “ex – sistere”) essere al di fuori del proprio essere. Perché quando noi esistiamo, siamo fuori del nostro “Sé” reale, al quale invece tendiamo. La meditazione (a questo punto più correttamente “meditazione trascendentale”)  ci aiuta a ritrovarlo, ci aiuta a staccare la spina per qualche attimo. Più o meno a lungo. Lo stesso che noi otteniamo, a volte, nella nostra pratica sportiva, con l’aiuto anche della fatica fisica che ci consente di far calare drasticamente la frequenza di vibrazione del nostro cervello. Portandolo dalla vibrazioni delle onde Beta (14 cicli al secondo) alle onde Theta (4/7 cicli al secondo). Un noto scrittore buddista, che intervistò alcuni grandi campioni,  diceva che le più alte prestazioni sportive,  avvengono in una “zona”, un quid spazio-temporale che gli stessi intervistati faticavano a spiegare correttamente. Non è un semplice stato di grazia. E’ qualcosa di più.

Buddha ha detto che viviamo in una condizione dolorosa (e non saprei dargli torto…). E l’origine di questa condizione è l’attaccamento al nostro corpo e al nostro modo di vita. Quando moriamo desideriamo rinascere perché non abbiamo finito quello che abbiamo cominciato prima. E torniamo ancora. Ma se ne siamo consapevoli  e agiamo nella maniera corretta possiamo uscire da questo ciclo (“samsara”).

Allora? Credo che se viviamo lo sport come un grande, un bellissimo gioco e riusciamo a mantenere le distanze dai falsi modelli che la società ci propina; se siamo consapevoli che la pratica può aiutarci a scoprire la libertà; se siamo capaci di   vincere e perdere gare con lo stesso sorriso; forse, allora, riusciremo ad essere più vicini a ricordare chi siamo veramente.